giovedì 16 aprile 2009

[NEXT LEVEL] La lenta morte del game over

Secondo la teoria del determinismo tecnologico, la natura di un medium va studiata non tanto in base ai contenuti che veicola quanto, piuttosto, rilevandone i criteri strutturali in base ai quali organizza la comunicazione. Estendere tale affermazione al fenomeno "videogioco", sebbene Marshall McLuhan, la Scuola di Toronto e l'assenza di qualsivoglia forma di intelligenza artificiale in Spacewar! (Steve Russel, 1962) siano anteriori nel tempo alla moderna concezione dell'intrattenimento digitale, è oggetto d'interessante analisi mediologica. 

Il potere economico acquisito dalle grandi industrie del settore videoludico è altresì evidente, così come il grado d'influenza raggiunto dal mercato console nei diversi ambiti sociali. Si tratta di lenti e pervasivi processi di riadattamento della sfera privata e di riconfigurazione dei rapporti intercorrenti tra uomo e tecnologia. Si pensi al social network partecipativo e collaborativo di LittleBigPlanet, agli appuntamenti sul Live di Microsoft (per sparare, guidare e, più in generale, giocare "assieme") o ai Wii-salotti per sudare, spintonarsi, contundersi, piroettare come Carla Fracci e distruggere l'arredamento svedese in tutta allegria. Ogni cultura, infine, si serve degli artefatti tecnologici di cui dispone per comunicare ai suoi membri (a quelli attenti, agli studiosi e ai visionari) una determinata immagine dell'uomo. 

Ne deriva che quella del videogioco attuale, inteso come perfetta esca digitale per le masse, è l'immagine di un prodotto commerciale sempre meno settoriale o di nicchia. 

Non più esclusivamente riservata all'appagamento hardcore di un tempo, l'esperienza che promette il videogioco in vendita giù al centro commerciale soddisfa appieno le esigenze della nuova, massiccia ed eterogenea clientela.