martedì 16 settembre 2008

L'arte dei/nei videogame?

Pienamente condivisibile è l'articolo di N'Gai Croal, risposta a un editoriale del New York Times intitolato "The play's the Thing" (traducibile alla buona con "Il Gioco è Tutto"). L'analisi di Croal è tanto lucida quanto singolare, data la sua elementarità: la ricerca dell'arte nel medium videogioco si ravvisa nell'azione.

Stringata, fin troppo ovvia, tanto da sgretolare a colpi di semplicità disarmante pagine, capitoli e interi tomi di semiotica sull'argomento in questione. Ci si lagna, ci si bea e comunque se ne continua a discutere – annosa questione - di cut scene, FMV, sequenze improrogabilmente non "skippabili" o innesti altamente (se non eccessivamente) cinematografici, compressi in un prodotto nato e creato per essere giocato: il videogioco. Alla bisogna, per uscire dall’empasse che questo tipo di affermazione può generare, è sufficiente tirare in ballo la vera natura ontologica (cioè dell’essere) del videogioco: l’interattività.
Il fondamento di ogni videogioco, infatti, risiede in quel ciclo di comunicazione fra uomo e macchina, caratterizzato da un duplice feedback (ad ogni azione mossa da ciascuna delle due parti segue una reazione). 

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