
Il gameplay di Patapon è una questione di mantra: ci si muove con pata pata pata pon, si attacca con pon pon pata pon e ci si difende con chaka chaka pata pon. Poi, a voler esagerare, si invocano le magie con don don-don don-don. Sembrerà anche una bazzecola, ma, con il metronomo puntato a più di centoventi bpm e un tappeto sonoro cantato da bambini esagitati e scoordinati, le quattro combo di tasti da tamburellare fanno del titolo di SCEE la più bella e ipnotica espressione del quattro quarti fatto videogioco.
All'inizio si fatica nel rintracciare in Patapon la vera componente ludica alla base del concept di gioco. La sensazione è che l'abilità del giocatore (considerato divinità dalla tribù dei Patapon) conti meno del design e che, per giunta, ogni scontro e ogni successo dipenda da eventi casuali. Poi, il tempo di potenziare l'esercito con nuovi guerrieri monocoli e nuove armi, ed ecco che ogni stage acquista un senso ben preciso. Sperimentare nuove soluzioni tattiche, giostrando con la posizione dei soldati tra le fila dell'esercito, acquista la stessa importanza che ha il non perdere mai e poi mai il ritmo.