giovedì 16 aprile 2009

Mario Power Tennis (New Play Control)

Camelot impugna il Wiimote e serve per il match! 


L'ha detto anche Steve Jobs: le confezioni nelle quali sono venduti i prodotti sono importanti tanto quanto i prodotti stessi e l'estrazione di un oggetto dal suo contenitore costituisce una parte integrante dell'esperienza dell'utente. 

Dunque, la prima cosa da fare non appena acquistato il nuovo Mario Power Tennis consiste nel rimuovere il cellophane che protegge la confezione, estrarre la copertina New Play Control! dalla tasca trasparente, capovolgerla, quindi inserirla nuovamente, con la facciata dell'artwork-a-tutto-campo ora in bella vista!

Lo scopo di tale operazione, ovviamente, ha un mero valore feticista, giusto per non compromettere l'estetica della libreria videoludica del fanatico acquirente.

L'introduzione al gioco (la stessa che apparve sul GameCube nel 2004, ma ora in 16:9), è ancora oggi dannatamente piacevole, oltre che esageratamente pomposa, laddove messa in relazione con lo sport che introduce. 

Ma, sarà bene ribadirlo, il Mario-tennis non è semplice tennis, fatto di nobili inglesi in calzoncini e pubblico tanto rispettoso quanto silenzioso nel corso del match. 

Il tennis di Nintendo, infatti, è divertentissima caciara con racchette e pallina, fatto di colpi scorretti e di massiccio impiego di armi non convenzionali.      

Poi, se ai tecnicismi della versione GameCube si aggiunge la possibilità di impugnare Wiimote e Nunchuck per darci giù di dritto e di rovescio (nel senso più letterale del termine), va da sé che Mario Power Tennis, ora riproposto in declinazione New Player Control!, promette esilaranti incontri "fisici", ancora meglio se in multigiocatore. 


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[TGS 08] Super Potato

Le meraviglie videoludiche di Super Potato 


Tokyo, quartiere di Akihabara. L'insegna reca una gigantesca patata antropomorfica, non troppo dissimile dal giocattolo Hasbro che negli anni '40 divertiva l'utenza con rozze customizzazioni facciali. Il palazzo, paradossalmente minuto persino per gli standard nipponici, è letteralmente incassato fra due grattacieli luminescenti, tanto che, se non fosse per la fama che lo contraddistingue, passerebbe facilmente inosservato. Tre piani (dal secondo al quarto, mentre il primo è solo di ingresso) di assurda follia videoludica dal marcato sapore di retrogaming. Insomma, da Super Potato ci puoi lasciare le penne e un sacco di quattrini. Entri e già un motivetto che più 8-bit non si può (per la precisione quello di Super Mario Bros.) scandisce l'evento. Già sorridi come il più felice dei bambini, poi sali una stretta, lunga e claustrofobica scalinata e sei nel paradiso del videogiochi. La regola è una sola, chiara e semplice: prelevare in anticipo (meglio se in qualche City Bank) quanto più contante possibile, perché una volta entrati sarà difficilissimo uscire a mani vuote. E, fidatevi, le carte di credito italiane, possono dare problemi una volta in cassa. Molto meglio un bel gruzzolo di sonanti Yen giapponesi, per non essere costretti a lasciare sugli scaffali una rarissima copia di Radiant Silvergun per Saturn o uno Zelda da collezione.


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[TGS 08] Tekken 6

Se non fosse stato per la calca attorno al cabinato doppio schermo (poltroncina, alta definizione e control stick in puro stile sala giochi), messo lì senza clamore, per puro passatempo, accanto ai macchinari pesca-dolciumi, quasi non ce ne saremmo accorti. Eppure Tekken, quello nuovo, il sesto, in declinazione Blood Rebellion c'era eccome. Complice una lunghissima pausa tra il pranzo in Namco e l'inizio del primo slot di interviste, l'istinto ludico è stato uno solo: quello di non lasciarsi sfuggire un giro gratuito (e altamente inatteso) sull'ultimissimo Iron Fist Tournament. È bastato un solo sguardo, un cenno d'intesa e, in men che non si dica, eravamo già seduti a selezionare furiosamente il lottatore da scagliare contro l'avversario (il plurale, ovviamente, si riferisce al sottoscritto e al Big Boss Sole).


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Banjo-Kazooie: Noci e Bulloni


L'inossidabile duo di Rare si è svegliato dal letargo?


Visibilmente ingrassato, rammollito e appesantito dal decennio trascorso in semi-letargo a gozzovigliare, l'orso Banjo corre lento e goffo, con respiro affannoso e un buffo incedere ciondolante. L'ozioso Kazooie non è da meno e, sebbene la linea del pennuto sia quella di una volta, manca del tutto di verve, spirito d'iniziativa e capacità di volare. Ma la strega Gruntilda, ridotta ai minimi termini di un teschio ambulante, ha fatto ritorno e sembra voler minacciare (con scarsa convinzione e miseri mezzi in suo potere) la serenità dell'appannato duo. Una testa di strega che vaneggia blande malvagità e una coppia di impacciati eroi dei bei tempi, insomma, sarebbero il pretesto affinché la storia possa avere inizio. Ma qualcosa non quadra: un videogioco moderno su Xbox360 abbisogna di brio, dinamismo, di protagonisti atletici e un cattivone di turno che sia temibile. Così si materializza L.O.G. faccia di Pong (l'acronimo sta per Lord of the Game) il quale, dopo essersi presentato come il sommo e ironico Signore di tutti i videogiochi (anche di quelli che hanno venduto meno come Grabbed by the Ghoulies), decide di dare un taglio alla ridicola pantomima inscenata dai tre scialbi litiganti. Banjo, dunque, perde venti chili in due secondi, Kazooie ottiene una sfavillante chiave inglese e alla strega viene donato un nuovo corpo diabolico. La sfida nella fabbrica dei videogiochi è appena incominciata!


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MadWorld


Tutta la "Wiiolenza" di Sega!


La commercializzazione di MadWorld è paradossale. 

Si tratta del videogioco più sanguinario, perverso e scurrile degli ultimi anni, che ora si riversa con tonnellate di plasma sul Wii di Nintendo, cioè la console più "giocattolosa" fra le tre sul mercato, quella più attenta alla sensibilità dell'utenza "casual" e storicamente votata all'intrattenimento disimpegnato, non competitivo e sempre pronto a strappare un sorriso a chi impugna i controlli di gioco. La console, insomma, adatta a svezzare i più piccini a suon di favole, funghetti colorati, idraulici nello spazio e sfavilotti.

Ora immaginate tutta l'emoglobina dissipata in anni di picchiaduro, di survival horror e simulazioni di guerriglia in terza persona o in soggettiva. Poi metteteci tutto lo splatter al gusto zombie di Left 4 Dead e quelli dell'Africa nera di Resident Evil 5. Aggiungete, infine, quante più imprecazioni, volgarità e turpiloqui sia possibile concentrare in un videogioco. Bene, MadWorld è molto più di tutto questo e funziona a meraviglia.

Il titolo di Platinum Games è oltraggiosamente efferato, tanto distante dalla concezione ludica made in Nintendo della console per tutta la famiglia "che gioca sul divano col sorriso da pubblicità", quanto assolutamente appagante, adrenalinico e capace di stimolare quel ludico sadismo che risiede (latente) nel videogiocatore di lungo corso.

E stavolta non c'è accusa che tenga il passo dei moralisti: la massiccia dose di violenza che dispensa il gioco di Sega è squisitamente iconografica e inverosimile, subordinata al "piacere ludico" dell'altrui smembramento creativo. 

La sua manifesta artificiosità ne smorza giocoforza la brutalità. 

Il particolare (e innovativo) stile grafico adottato ammorbidisce ogni gesto omicida, lo riporta a misura di fumetto d'autore (come Sin City) e lo contestualizza per quel che è davvero: un picchiaduro col bollino PEGI (18+), con una motosega insozzata di sangue in copertina, un'immagine di un energumeno che strappa il cuore al nemico e uno slogan che un bambino farebbe meglio a ignorare: "Killer Entertainment". In MadWorld, insomma, il bianco e il nero sono distribuiti in egual misura (senza possibilità di appellarsi al razzismo) e il risultato è sempre lo stesso: sangue chiama sangue, e a galloni, sino a tingere lo schermo di un vivido rosso, il terzo colore.


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[TIME MACHINE] L'idraulico patentato

La storia di Mario Kart attraverso sei capitoli in derapata…    


Il Super Nintendo Entertainment System (SNES per i patiti dell’acronimo) fu commercializzato in Giappone il 21 novembre 1990. La line-up che accompagnò il lancio della nuova console a 16-bit, oltre al pregevole (e ancor oggi universalmente osannato) Super Mario World, potè fregiarsi anche di una killer-application incentrata su velocissime corse futuristiche con veicoli a levitazione antigravitazionale. 

Prodotto da Shigeru Miyamoto, F-Zero si appoggiava totalmente sull’implementazione hardware del Mode 7 (l’ultima meraviglia dei sette stati -o modalità- della neonata console di Iwata). Il geniale effetto grafico che si riuscì a riprodurre su schermo fu quello di ruotare e scalare alla bisogna uno sprite o un fondale bidimensionale, così da creare l’illusione (assolutamente credibile e assai godibile) di profondità e tridimensionalità del piano di gioco. Ma le limitate capacità di calcolo della console impedivano, tuttavia, l’implementazione di due differenti fondali in simultaneo movimento. 

Detto in maniera spicciola, giocare in multigiocatore con F-Zero era ancora utopia.

La più ovvia e brillante soluzione congegnata dai tecnici di Nintendo per uscire dall'empasse fu quella di integrare le cartucce di gioco con chip aggiuntivi, in grado di potenziare dall’esterno le prestazioni della console. 

Nacque, così, il primo DSP (Digital Signal Processor).

Pilot Wings funse da cavallo di Troia con la nuova tecnologia inclusa direttamente nella confezione di gioco: il risultato permise di sdoganare il volo ad ampio raggio su console. La frequenza del processore nativo raddoppiò in quanto a megahertz, la fluidità degli oggetti in movimento trovò nuova verve e la capacità complessiva di calcolo donò a Miyamoto-san (con Hiroshi Yamauchi come produttore esecutivo) lo spunto necessario per creare di buona lena un nuovo gioco di corse in grado di sfruttare la nuova tecnologia, di "dividersi" in split-screen e intrattenere, così, più di un giocatore alla volta.

Il 1992, infine, fu l’anno di Super Mario Kart, felice precursore di un intero genere videoludico e dell'ormai arcinoto "saltello" in curva.


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[VIDEOLETTURE] La nascita dell'homo game

Gianfranco Pecchinenda insegna Sociologia della comunicazione e dei processi culturali all'Università degli Studi di Napoli Federico II (e dal 2008 riveste il ruolo di Preside della stessa Facoltà). Da diversi anni si occupa dell'analisi dei fenomeni inerenti all'immaginario collettivo, con particolare riferimento al tema dell'identità e del rapporto tra mutamenti tecnologici e processi culturali. Tra le sue più recenti e brillanti pubblicazioni letterarie ("Dell'identità", 1999 e "Culture erranti", 2002) merita assoluta attenzione il volume, edito da Laterza nel 2003 (in seconda edizione nel 2004) Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell'"homo game".

La tesi che l'autore espone nell'introduzione al testo poggia interamente sull'analisi dei modi attraverso i quali i videogiochi influenzano i processi di costruzione sociale dell'identità nel mondo contemporaneo. Il dettagliato percorso teoretico tracciato, che dal pensiero di Platone e Aristotele giunge sino al moderno determinismo tecnologico di Marshall McLuhan, spazia lungo un continuum storico, filosofico e sociologico, per definire il progressivo sviluppo dell'"homo game", finemente contestualizzato nella cosiddetta "cultura della simulazione". L'impeccabile e coinvolgente taglio narrativo del libro, accademico come ovvia risultante curriculare dell'autore, bipartisce l'indice generale in due fasi distinte e consequenziali, dalle origini dell'homo communicans, fino all'immaginario collettivo dell'homo ludens e dell'homo game (secondo la riconfigurazione moderna delle concezioni di identità, alterità, verità e finzione, propri della società contemporanea).

L'autore, nel definire una chiara e ragionevole sinergia all'interno del rapporto tra uomo e interfaccia, introduce il concetto di "macchina sentimentale", fondata sulla tesi dell' "…importanza della relazione affettivo-emotiva che coinvolge, che emoziona, che provoca una sorta di sentimento reciproco tra le due parti".


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[VIDEOLETTURE] Gli strumenti del videogiocare

Dodici saggi per sviluppare una critica consapevole


Se l'artista è un segnale di allarme dei nuovi media, la copertina del libro qui segnalato la dice assai lunga: si tratta di uno dei venti "Isometric Screenshot" di John Haddock.

La stampa digitale, caratterizzata da una grafica isometrica non dissimile da The Sims di Will Wright, ritrae Eric Harris e Dylan Klebold durante il massacro avvenuto nel 1999 alla Columbine High School, a Littleton in Colorado.

La scelta non è stata casuale.

Recita l'appendice al libro:"Le schermate (di Haddock) producono un curioso paradosso: pur rappresentando un atto violento che ha, in varia misura, segnato la nostra epoca, sono iconografie della tragedia, la loro palese artificiosità ne smorza la brutalità. L'immagine di copertina, "Cafeteria", è una reinterpretazione in chiave ludica del massacro nella scuola di Columbine. Eric Harris e Dylan Klebold, mitra a tracolla, anfibi e giacchetta militare, assurgono ad avatar. Bang Bang, you're dead: le armi da sole non uccidono, i videogiochi sì".

Il volume a cura di Matteo Bittanti si intitola Gli strumenti del videogiocare. Logiche, estetiche e (v)ideologie e appartiene alla collana "Estetiche della comunicazione globale" (Costa & Nolan) diretta da Marcello Pecchioli, al fine di rappresentare un punto di collegamento tra i contributi e i riferimenti storici e culturali del XX secolo e quelli del nuovo millennio.


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[Next Level] Quando tutto torna a Zero

Una saga impone metodo e dedizione. La studi giorno per giorno, la puoi dilazionare in due, tre, dieci anni o quello che vuoi. Sottolinei e poi ripassi, ripeti a memoria come fosse poesia scolastica e, a differenza dei versetti del Carducci, speri non finisca mai. E una saga firmata Hideo Kojima, più che mai, assume forma onirica, dilania i canonici confini dell'intrattenimento digitale e assurge a eterna epopea. Il rewind temporale di Snake Eater (agli anni sessanta) sembrava poter essere il miglior garante per la longevità del serpente, ma Guns of the Patriots ha decretato la discesa del sipario. In verità la pistola, quella infilata nella gola di Old Snake, non sparerà per davvero. La polvere che esplode è solo eco del tasto START, non appena decidi che è il caso di incominciare a giocare o solamente guardare, tanto cambia pochissimo. Ti metti comodo in poltrona, ti abitui giocoforza al fatto che i baffi di Snake non siano bizzarra conseguenza del suo invecchiamento precoce e sei già pronto per l'ultimo straziante game over.


[Next Level] Se questa è violenza

Se ci si domanda quale sia l'unico limite rappresentativo di ciò che oggi può definirsi videogioco, esiste una sola, possibile risposta: il senso interiore dell'anima umana.

L'evidenza di tutto ciò è offuscata dalla confusione abituale di cui siamo vittime quando crediamo che ogni società, disponendo di rappresentazioni artistiche tecnologicamente avanzate, possa di conseguenza incrementare la propria conoscenza interiore. 

È del tutto chiaro che l'artefatto videoludico non si produce, in una società, se non a uno stadio molto avanzato della sua evoluzione, ma al progresso tecnologico non sempre e necessariamente corrisponde un progresso spirituale.

Oggi il videogioco finge di non annegare, becero, in una spazialità digitale intrisa di mero codice binario, del tutto iconografica, incorporea e disumana. 

L'eterno gongolarsi nella splendida fiducia al progresso tecnologico, che imbastardisce il raziocinio del giocatore e accentua la lordura sociopatica del geek, è un qualcosa per cui incominciare a manifestare sintomi di nausea e profonda repulsione. 

La stampa generalista che teme violenza indotta si danna invano. 

Quella che invoca il reato d'odio razziale è perlomeno miope o daltonica.

L'attuale panorama ludico è, in buona sostanza, roba softcore da femminucce.

Emerge giocoforza la figura di un prodotto inutile, incapace di rappresentare nella maniera più genuina e trasparente possibile il mondo perverso che lo genera a ogni anno fiscale. 

Riflettere sulla pretesa, filantropica e accademica, di elevare il videogioco al rango delle arti culturalmente valenti, inoltre, muta in una pratica tanto imbarazzante quanto deprimente. Ciò deriva dalle capricciose esigenze di un'industria sempre più fondata sul ritorno economico e su target prestabiliti dagli indicatori di gusto delle masse. La figura tracciata dal videogioco moderno è quella di un prodotto industriale (d'eccellenza, sia chiaro) che a conti fatti si mostra tanto invertebrato quanto scialbo, incapace di maturare, crescere e comprarsi da solo la pizzetta per la ricreazione. 

I goffi tentativi di comparazione con l'arte del cinema e della letteratura appaiono limpido motivo d'umiliazione, di cui intimamente vergognarsi in quanto videogiocatori.


Il quadro dei media che se ne (pre)occupano è sconcertante, debilitante.


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[Next Level] LittleBigmedium

Un noto giornalista del passato, Mario Borsa, diceva che bisogna dire subito il fatto, perchè il lettore vuole sapere subito il fatto. "Non nascondete il fatto in mille divagazioni, non infiorettate l'articolo, perché il lettore vuole sapere subito che cosa è successo", diceva alle nuove leve della macchina da scrivere. 

Dunque, il fatto è che il videogioco è un medium. 

Fatto strano, invero, ma tanto veritiero da doversene fare una più che buona ragione.  

Eppure mercoledì 4 marzo 2009 il giornalista de Il Sole 24 ore Marco Mele, durante una conferenza stampa all'Università di Roma La Sapienza ha affermato l'esatto contrario. 

Si trattava della presentazione della prima ricerca italiana (commissionata da Sony) sulle opportunità offerte dalle aziende dal gaming e dai social network. La ricerca, come debitamente sottolineato dal preside Mario Morcellini, non avrebbe fornito riscontri e risultati, ma soltanto un potenziale modello di ricerca di marketing, per indagare le possibilità del fundraising online, del recruiting aziendale e della partecipazione interattiva nei social network, ludici e non. 

Il titolo della conferenza era Business e gaming. Gioco e social network nella rete dell'impresa, con ospiti illustri quali Gianfranco Pecchinenda (preside della Facoltà di Sociologia dell'Università di Napoli Federico II e illuminato studioso del videogioco in quanto medium culturale), Gaetano Ruvolo (General Manager Sony Computer Entertainment Italia), Alberto Mattiacci (professore di Marketing) e Andrea Cuneo (direttore del marketing di Sony).

In una fumosa disquisizione sull'abc dei moderni game studies, sull'ormai assodato concetto di performance del giocatore e sulla crisi dei sistemi di rappresentazione del reale (secondo la quale l'incapacità di rinnovo culturale dei media generalisti si ripercuote sull'impossibilità che il videogioco emerga quale oggetto culturale), il giornalista Mele ha finanche sottolineato che il videogioco "non è un medium, ma solamente un dispositivo di intrattenimento, di qualcosa che serve per… perché poi… e cioè infatti"

Il suono acuto e stridente generato dall'arrampicata libera sugli specchi era ai limiti del decoro acustico. 

Il macroscopico errore di contesto commesso dal noto giornalista, inoltre, non trova attenuanti neppure nelle premesse all'intervento quando, facendo spallucce, dichiarava che la propria esperienza videoludica fosse iniziata e conclusa con la PlayStation 2, per qualche pomeriggio da emozioni forti, diverse, col pad in mano.


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[NEXT LEVEL] La lenta morte del game over

Secondo la teoria del determinismo tecnologico, la natura di un medium va studiata non tanto in base ai contenuti che veicola quanto, piuttosto, rilevandone i criteri strutturali in base ai quali organizza la comunicazione. Estendere tale affermazione al fenomeno "videogioco", sebbene Marshall McLuhan, la Scuola di Toronto e l'assenza di qualsivoglia forma di intelligenza artificiale in Spacewar! (Steve Russel, 1962) siano anteriori nel tempo alla moderna concezione dell'intrattenimento digitale, è oggetto d'interessante analisi mediologica. 

Il potere economico acquisito dalle grandi industrie del settore videoludico è altresì evidente, così come il grado d'influenza raggiunto dal mercato console nei diversi ambiti sociali. Si tratta di lenti e pervasivi processi di riadattamento della sfera privata e di riconfigurazione dei rapporti intercorrenti tra uomo e tecnologia. Si pensi al social network partecipativo e collaborativo di LittleBigPlanet, agli appuntamenti sul Live di Microsoft (per sparare, guidare e, più in generale, giocare "assieme") o ai Wii-salotti per sudare, spintonarsi, contundersi, piroettare come Carla Fracci e distruggere l'arredamento svedese in tutta allegria. Ogni cultura, infine, si serve degli artefatti tecnologici di cui dispone per comunicare ai suoi membri (a quelli attenti, agli studiosi e ai visionari) una determinata immagine dell'uomo. 

Ne deriva che quella del videogioco attuale, inteso come perfetta esca digitale per le masse, è l'immagine di un prodotto commerciale sempre meno settoriale o di nicchia. 

Non più esclusivamente riservata all'appagamento hardcore di un tempo, l'esperienza che promette il videogioco in vendita giù al centro commerciale soddisfa appieno le esigenze della nuova, massiccia ed eterogenea clientela. 


[NEXT LEVEL] The perfect lap

Attenzione: storia di fantasmi, acchiappafantasmi e filosofia.

È cosa nota: il videogiocatore è un individuo "prevalentemente" malato. 

E, sebbene l'avverbio sembrerebbe messo lì come mero espediente scenico, sappiate che ciò è quanto di più vero possa essere affermato se interrogati in materia. 

Il videogiocatore moderno è un individuo mannaro, affetto da sindromi e manifestazioni patologiche elegantemente raccolte in un catalogo di generi e sottogeneri ludici. 

C'è quello da fucile a pompa, lama al plasma o piede di porco. Quello che crede che REZ sia affidabile simulazione di quotidianità o quello che se ne sta ancora nel Vault 101 ad ascoltare brani doo-wop. Quello rannicchiato in Morfosfera da almeno sei mesi e che non vuole saperne di uscire, così da mantenere inalterato e quanto più asettico possibile il livello di coerenza psico-cognitiva con la mappatura ambientale del pianeta. Quello che sputa ordini al microfono, che urla copertura, fuoco senza remore o un improperio a doppia zeta. Il tipico bestione da Gears of War, tanto per capirci, che ci va giù duro negli spogliatoi dopo un Live e che deve crivellare qualcosa o qualcuno almeno una volta a settimana, come briosa striscia di polvere da sparo e adrenalina, sennò dà di matto sul serio. 

Poi esiste una bizzarra categoria di videogiocatori raminghi. 

Si barricano in maniera senziente all'interno di contesti ludici elitari e religiosamente privati. La sintomatologia dominante emerge da una deviazione votata all'autoerotismo del miglioramento "prestazionale" su un dato tracciato di un dato racing game. 

Il primo giro è per lanciarsi, il secondo è per generare un ghost di tutto rispetto e dal terzo in poi è solo godimento, in un certosino lavoro di fino contro sé stessi. 

Nella tradizione filosofica esiste una stretta relazione del tempo col pensiero, inteso come riduzione a estensione dell'anima e successione di stati psichici tramite la memoria e l'anticipazione. Il ghost, dunque, muta nel più puro Io digitale, nella migliore rappresentazione attuata del Sé videoludico appena passato e nel superamento dei propri limiti attraverso un'eterea barriera auto-prodotta, auto-imposta. Non esiste un tempo unico e universale per tutti gli eventi fisici e Turn 10 inasprisce il concetto con Forza Motorsport 2: un'irrefrenabile pulsione, da snocciolare giro dopo giro, nella romantica battaglia contro i fantasmi del passato, meglio se al Mugello. 

Tempo, insomma, inteso come cronometro. Cronometro inteso come Time Trial. E Time Trial come pratica ludica nella quale è ciclicamente monitorata la propria prestazione ai comandi di un'interfaccia prestabilita. Il ghost funge da asticella morale.


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martedì 20 gennaio 2009

[NEXT LEVEL] L'Era del Game 3.0

Il gioco non è un lusso, ma stretta necessità. È un dovere mentale e non un triviale passatempo. L'attività ludica, ancora, è una componente imprescindibile dell'uomo. E la definizione di homo ludens che fornì Johan Huizinga, dunque, ne è autorevole conferma. Nel 1938 lo storico olandese scriveva che "Il gioco è più antico della cultura, perché il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare"

La cultura di una società, secondo lo studioso olandese, è scritta nei suoi giochi.

Ora, sebbene  il dilagante qualunquismo generalista si mostrerebbe fin troppo lesto nello sgretolare le suddette affermazioni a colpi di maracas, occorre prendere atto che qualcosa sta cambiando. I videogiochi stanno evolvendo in Game 3.0, fondendosi impeccabilmente con il Web 2.0. La cultura, oggi, è quella di enormi community cablate, di user-generated contents (altresì noti come UGC, cioè contenuti generati dall'utente), di milioni di blog, di Facebook e di amicizie elargite all'impazzata, della pubblica vetrina di Myspace, Flickr o, per tagliar corto, di YouTube, che di slogan non ne ha ormai più bisogno.

Ma è anche la cultura della Wii Generation, quella che trasforma le famiglie in Mii e le fa competere (e sudare) nel salotto dei bei sogni, sfruttando interfacce a prova di incapace e sistemi di controllo "gestuali", ben più adatti a chi ancora ti guarda perplesso se gli dici R1 o, peggio ancora, L3. 

La cultura del gioco online, di Xbox Live e PlayStation Network, di WoW e mille sotto di lui, della digital delivery, della realtà che assomiglia sempre più a Gran Turismo, di LittleBigPlanet, del nuovo genere videoludico che porta in grembo (quello degli Happy Tree Editor), di Phil Harrison e di Home. 

E, dannazione si, anche di Will Wright. 


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[NEXT LEVEL] Cinque tasti colorati

Un ambiente è un processo, giammai un dato di fatto immutabile. Esso modifica le nostre capacità percettive, cesella il nostro sistema nervoso e plasma abitudini e comportamenti ormai radicati. E ancora, laddove una tecnologia scavi breccia in un ambiente, il fluire di vita quotidiana si adatterà all'ambiente stesso. Il videogame, quindi, come limpida applicazione tecnologica, è una perfetta macchina da guerra ideologica, capace di imporre rivoluzionari e travolgenti mutamenti sociali. 

Eric Cartman una volta ha detto che "le chitarre vere vanno bene per i vecchi" (South Park, stagione 11, puntata 13 - Guitar Queer-o). Ovviamente esagerava ma, a legger fra le righe, l'affermazione celava un fondo di verità. Già, perché se non fosse per i "giochini elettronici", quelli programmati dai nerd brufoli-e-occhiali nel fondo di scantinati arredati con poster di Pong e schede perforate, oggi l'industria discografica non se la passerebbe poi troppo bene. Paradossale: fino a qualche anno fa era notoriamente derelitta, moribonda, afflitta dalla piaga della pirateria e dei dischi di Celine Dion, mentre ora è mantenuta in vita (seppur ancora in prognosi assolutamente riservata) da un manipolo di secchioni con le loro chitarre giocattolo. Il rovescio della medaglia, insomma: codici binari e necessario hardware di corredo che salvano il culo dei veri rocker, quelli duri, capelli lunghi e stuoli di groupies (si poteva dire culo, vero?). 

Si prenda Activision...


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Metroid Pime Hunters

Tre ettogrammi che gravano sulla mano sinistra rappresentano un improbo esercizio di doloroso equilibrismo videoludico, se non fosse che il nome della game card alloggiata nello slot del DS corrisponda a quel Metroid Prime Hunters, atteso spasmodicamente sin dagli esordi della console Nintendo DS sul mercato. E allora ogni formicolio e disagio tattile, con la mano che arranca sullo scivoloso chassis della console in cerca della presa ottimale e le dita che, tempo dieci minuti, perdono irrimediabilmente sensibilità, vengono accettati come dazio (scomodo e non previsto) per godere di Samus Aran in formato hand-held. Le capacità giroscopiche della visuale in soggettiva garantiscono un impeccabile e chirurgico controllo via stilo, con la mano destra che ringrazia la sbilanciata ergonomia e la sinistra, già intenta nel sorreggere la goffa console, ormai priva di sensi. Perché optare per la Modalità Doppia Presa, nonostante le indubbie comodità connesse all'impugnatura standard, equivale al ridimensionamento volontario di un gamplay altrimenti frenetico e tanto appagante quanto uno sparatutto in soggettiva per PC.


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lunedì 1 dicembre 2008

Gran Turismo 5 Prologue

È fuori da ogni sorta di dubbio che l'antipasto dicembrino di Polyphony abbia il retrogusto amaro dell'arguta manovra commerciale. Ma chi se ne importa! Resistere all'esborso della necessaria banconota da cinquanta euro (il resto in spiccioli è poca roba), ebbri dei bagordi natalizi, è impossibile. Accaparrarsi quello che sarà il nuovo Gran Turismo 5 tramuta in mania compulsiva. Perché, in fondo, si tratta pur sempre del nuovo gioco firmato Kazunori Yamauchi "e resistere tu non puoi", senza che ci provi.

È questa, in sostanza, la vera forza di un prodotto che, nell'arco di un decennio, ha costruito attorno a sé, in maniera elegante e meticolosa, un appeal ineguagliabile e di portata mondiale. O, ancora, di un titolo che ha creato il capostipite di un genere e cesellato, negli anni, ciò che oggi rappresenta il metro di riferimento del racing gaming moderno. Resta il fatto che, mentre i sofisticati cloni a quattro ruote (Forza su tutti) hanno inasprito l'agonismo in pista, pur mantenendo fede alla struttura originale del gioco, la serie automobilistica di Polyphony, nell'arco di cinque capitoli e una manciata di prologhi, ha invece deviato il tiro verso lo showroom di gran classe, da guidare per intimo piacere.


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MotoGP 08

A Laguna Seca, sulla ripida ascesa del Rahal Straight, la nerboruta accelerazione di una Desmosedici è capace di trasformare il cavatappi (curva 8, altresì nota come The Corkscrew) in bunjee jumping a due ruote. Si scalano ferocemente tutte le marce in eccesso, con il posteriore che scodinzola, la frizione antisaltellamento sotto stress e il pilota aggrappato con i denti alla leva freno anteriore. Poco meno di sessanta chilometri orari, poi giù in picchiata verso la curva Rainey, a sinistra, da terza marcia e posteriore fumante. Ora, a voler essere pignoli, al titolo di Capcom mancherebbe soltanto il tombino, quello appena al di là del cordolo, quando la scorsa estate Rossi ha fatto alzare tutti in piedi sul divano con quel sorpasso (a Stoner) che rimarrà, a torto o a ragione, negli annali del motociclismo sotto la voce "follia pura". Per il resto, invece, sembra esserci tutto: classe regina, 250, 125, modalità carriera, prove cronometrate e l'intero roster di piloti aggiornato alla versione 2008. E la firma di Milestone, inoltre, rappresenta il miglior garante affinché MotoGP 08 possa risultare il giusto (e godibilissimo) mezzo fra il mondo dell'arcade più frenetico con quello delle rigorose simulazioni motociclistiche. 


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domenica 30 novembre 2008

LittleBigPlanet

L'articolo che segue, fatto interamente di pezza e tenuto assieme da colla e graffette da cancelleria, è totalmente inutile: LittleBigPlanet è bellissimo e non lo puoi leggere affatto. Appena parte Cornman (Kinky), con quella linea di basso e la fisarmonica rock, mi ci gioco le scarpe e pure il pad, sei già col tuo Sackboy che balli sfrenato. Perché, dieci minuti prima, manco fossi nella bat-caverna con Alfred, la voce italiana di Michael Cain ti ha insegnato che hai quattro possibili espressioni facciali, che con il movimento del Sixaxis (era ora!) animi quel gomitolo marroncino e che con i dorsali inferiori gli afferri le braccia e gli fai fare quello che ti pare, basta che vai giù duro con gli stick analogici. Ti ha insegnato, poi, che il Popit è una gran bella invenzione, che con la X si salta più o meno in alto e che, in fondo, trascorrere ore a indossare vestiti e provare travestimenti, perdendosi nelle combinazioni più ardite, non è poi quel narcisistico vezzo da biasimare così tanto. Ma, se proprio volete sprecare il vostro tempo a leggere questa recensione (occhio che è lunga), piuttosto che giocare con (e dentro) LittleBigPlanet, sappiate almeno una cosa: quello che avete fra le mani, oltre che un avanzato editor di mondi ludici, è anche un platform di quelli tosti e irriverenti, già pronto da giocare.


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Mario Kart Wii

Bastano cinquanta euro per smarrire il senso del tempo e ritrovarsi catapultati, con il più bello dei sorrisi stampato in faccia, al 1992, l'anno del primo Super Mario Kart. L'evento ha la stessa portata di quelle rare e preziose rivelazioni da cuore in gola, nostalgia canaglia e tanta, fin troppa, fretta di vedere com'è, com'è fatto, cosa hanno migliorato e chissà che si saranno inventati alla Nintendo questa volta. Scoprire poi che questo sesto capitolo è molto più simile all'episodio DS, piuttosto che in linea con i meccanismi e le dinamiche da party game di Double Dash!!, mette d'accordo tutti quanti: evangelisti delle prove a tempo e vecchie volpi da bagarre col grilletto facile. Ora ci sono le moto (da cross, da strada e prototipi), lo snaking è roba che non va più mica tanto e l'online in 12 chettelodicoaffare! Anticipare la valutazione finale a queste righe, inoltre, non è mancanza di disciplina editoriale, ma fortissima e incontenibile gioia del videogiocatore: Mario Kart Wii è il più bel Mario Kart sia mai stato creato dalla mente di Miyamoto. L'onore di argomentarne il perché, invece, impone un contegno piuttosto difficile da mantenere.


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sabato 27 settembre 2008

World in Conflict: The Massive Attack

Sud della Svezia, Malmö, zona centrale. C'è un mastodontico leone scolpito nella pietra a presidiare l'elegante palazzo. Suoni il campanello (con un quarto d'ora d'anticipo) alla voce Massive Entertainment e ti accoglie una biondissima segretaria. L'atmosfera è rilassata e rilassante, scandita da convenevoli senza fretta e un caffè per chi ne ha voglia. Almeno una decina di sviluppatori sta beatamente facendo colazione (ognuno con tazza rigorosamente customizzata), mentre i ritardatari arrivano con skateboard griffati o prototipi di city bike. Ci sono enormi arance dappertutto, ma siamo solo al primo piano di un'intricata struttura (quasi escheriana). Ci faranno vedere il nuovo World in Conflict: Soviet Assault per console (guai a chiamarlo semplice porting!) e "qualcosa di nuovo" in versione PC, cioè l'espansione relativa, per aggiornare il proprio World in Conflict alla versione Soviet Assault. La parete dei trofei (Best Strategy Game of 2007), un paio di vetrine di memorabilia e un fornito dispencer di testate giornalistiche videoludiche rappresentano un piacevole passatempo per ingannare l'attesa, prima che la conferenza stampa e il tour negli studi abbiano inizio secondo il programma giornaliero.


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Phoenix Wright Ace Attorney: Justice For All

Quattro casi giudiziari sembrerebbero pochi anche per l'avvocato (virtuale) più lassista che ci sia. Ma Justice for All, secondo capitolo per DS della serie di Capcom marchiata Phoenix Wright, offre un'imperdibile avventura fra misteriosi crimini e tribunali virtuali, diluita attraverso una ventina d'ore di gioco incalzante e diretta con coinvolgente maestria.

La serie, nata nel 2001 con il nome di Gyakuten Saiban e acclamata con successo dal pubblico nipponico, vanta già ben tre episodi per GameBoy Advance e due conversioni per DS dei primi due capitoli. Per chiunque si trovi per la prima volta dinanzi a questo episodio forense, si tratta di un'avventura grafica (e testuale), da vivere nei panni del tenace avvocato difensore Phoenix Wright, disposto a tutto pur di far emergere la verità in aula di tribunale.


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Burnout Revenge

Dodici mesi, ovvero un'intera generazione di pin-up senza veli che battaglia a suon di calendari, dove anche gennaio e febbraio diventano mesi bollenti, da infarto cartaceo-visivo. Dodici mesi, ovvero un'offesa dinanzi ai sempre più dilatati tempi di sviluppo di videogame d'autore (Kojima, Yamauchi, Aounuma e affini). Dodici mesi, anche troppi per la colossale macchina commerciale targata Electronic Arts, avida e carica di fretta, mai satolla e ben consapevole della veridicità della legge videoludica sottesa all'incessante e pianificato aggiornamento di un prodotto. Mutato nel titolo, nel suffisso e nello slogan pubblicitario a latere, rinfrescato da una nuova palette di colori e pubblicato come "patch addobbata a nuovo videogioco" (la copertina della confezione parla chiaro), il sistema di massificazione commerciale e appianamento sensoriale continua a macinare soldi e il pubblico sembra godere (per approfondimenti si legga: Alez Vs. the World III - Seguiti e virtù). Dodici mesi, neanche il tempo di farsi un giro in quel famoso localino di Las Venturas o terminare l'ultimo capitolo di Parappa The Rapper e Burnout 3, con un auto-takedown, si accomoda tristemente nell'ospizio dei videogiochi dei tempi che furono. E questa volta si può fare a meno di lacrime e malinconia videoludica perché Revenge, nonostante la sua breve incubazione, è in grado di fugare i dubbi in merito alla sua nascita prematura. È sufficiente un giro a Detroit per dimenticare la fastidiosa quanto esaltata voce di DJ Striker. E al primo innesco del turbo l'ormai nota emittente radiofonica Crash FM si accavalla alle frequenze di Radio Maria, lasciando ora il dovuto spazio sonoro a Flyover degli Asian Dub Foundation. Insomma, la Acclaim riposa in pace, Burnout 3: Takedown non si sente più tanto bene ed Electronic Arts gongola come non mai, coccolata da un così remunerativo aggiornamento della serie.


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Driver Parallel Lines

Sarà l'eucaristico approssimarsi della Pasqua che dona nuova linfa vitale a ciò che avvizzisce, sarà che all'ultimo giro di boa della sesta generazione videoludica appaia doveroso congedarsi nel migliore dei mo(n)di possibili, o sarà, più semplicemente, che il lungo mea culpa di Gareth Edmonson e del team Reflections sia stato accolto nell'alto dei cieli (amen). Quel che di sicuro appare evidente è che la comatosa serie di Driver, proiettata nel più profondo degli abissi ludici dal terzo diabolico episodio, si sia appena ripresa alla grande con il recentissimo Parallel Lines. Le ceneri di Driv3r, assieme a quelle di Tanner (di cui nessuno sente la mancanza), sono state disperse dal sensibile e profondo processo di autocritica della software house inglese. L'indignazione innescata dal bizzarro rapporto fra il venduto e la pubblica opinione sul terzo (scarso) episodio della serie è rintanata maldestramente nei mercatini dell'usato, subissati da gialle ed ingannevolmente accattivanti copertine, abbandonate a prendere polvere e denigrate dai più sinceri negozianti che ne sconsigliano (incredibile) l'acquisto.

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Metal Gear Solid: Portable Ops

La pregevole trama di Metal Gear Solid: Portable Ops rappresenta un'azzeccata congiuntura narrativa tra Snake Eater e il primo episodio per MSX, vecchio ormai di vent'anni. Macroscopiche differenze tra la versione americana e quella europea del titolo handheld di Kojima Productions non ve ne sono, eccezion fatta per la localizzazione in italiano, che agevola non di poco la fruizione delle abbondanti porzioni di testo proposte.

Resta il fatto che Portable Ops, accantonando le destabilizzanti dinamiche del card game, spazza via il ricordo dei due discutibili Ac!d e battezza la prima vera missione tascabile di Naked Snake, con un UMD che straborda di contenuti off/online.

TATTICHE BELLICHE DI PERSUASIONE

L'intrigante narrazione è punteggiata, in perfetto stile Metal Gear Solid: Digital Graphic Novel, dalle coinvolgenti tavole firmate Ashley Wood e da un comparto sonoro capace di valorizzare l'azione in corso con la corretta dose di pathos. Ma, se da un lato è possibile ritrovare le meccaniche di gioco che da sempre caratterizzano l'epopea del serpente, Portable Ops supera il concetto di semplice miniaturizzazione, offrendo molteplici approcci ludici, preclusi, sinora, persino alle versioni da salotto. Giungere spediti alla meta della singola missione (selezionabile di volta in volta tramite un intuitivo sistema di Hot Spot), alternando il già noto CQC alle tradizionali movenze felpate di Big Boss è puro e disimpegnato divertissement da stealth "mordi e fuggi".
Laddove la fruizione frettolosa del titolo di Kojima è agevolata da una struttura delle (brevi) missioni calibrata sull'intrattenimento portatile, però, reclutare preziosi alleati e metter su un proprio esercito (che verrà poi impiegato nelle sessioni online) è quanto di più profondo e innovativo Metal Gear Solid: Portable Ops possa offrire all'utenza PSP.

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Mario & Luigi: Partners in Time

"Una favola interattiva geniale ed irriverente, che sfoglia le proprie pagine nel paradosso temporale della tradizione Nintendo e diverte il fruitore con ampie dosi di gag esilaranti e personaggi destinati a trascendere la storia del videogioco." Con queste parole Britney Spears, interpellata in merito nel giorno di lancio del suo ultimo singolo, ha definito il nuovo Mario & Luigi: Partners in Time per DS. E al grido di "Hit me Mario one more time" risulta impossibile dare torto al pensiero della bionda pop star internazionale. Perché Mario & Luigi: Partners in Time è molto più di un semplice aggiornamento tecnologico del pluridecorato Mario&Luigi Superstar Saga: è un cristallino esempio di concept di gioco semplice e geniale, riadattato e impreziosito con dosi di magia. È l'esaltazione della double screen experience. È lo stesso concept, dopo la prima mezz'ora di briefing e apprendistato con le dinamiche, a denunciare un'impensabile profondità di gioco. Laddove Wario Ware nobilita l'utilizzo del pennino e stressa (bonariamente) i riflessi dell'utente in un complesso di mini-giochi a sé stanti, Mario & Luigi: Partners in Time raggiunge lo stesso obiettivo, privandosi del touch screen e immergendo il tutto in una trama da vivere col sorriso sulle labbra.

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lunedì 22 settembre 2008

[NEXT LEVEL] I Wiideogiochi fanno male?

Il seguente scritto è ispirato a una storia (un po’) vera

Un tempo, quando il multiplayer online era ancora fantascienza e l'alta definizione una prerogativa riservata solamente agli impianti audio, fracassarsi vicendevolmente il joypad sulla testa rappresentava un chiaro e inconfondibile segno di sfida fra giocatori in carne e ossa. Capivi immantinente che quel gol o quella combo portata a segno avrebbero sgretolato il self-control dell'amico che ti sedeva accanto. Potevi vederlo mutare nella forma e nel colore, sino a lambire soglie di preoccupanti tonalità paonazze. Poi, giusto il tempo per un violentissimo lancio del pad (tipica tattica intimidatoria) e gli immancabili improperi del caso, quindi subito palla al centro o nuovo round. Fight, insomma, ma per davvero.
Oggi, invece, arriva Nintendo e dice che giocare con tutta la famiglia assiepata in salotto, simulando match tennistici, round di boxe o balli di gruppo, è spensierata e divertentissima socializzazione videoludica. Bastano una console, una barra sensore, un cesto pieno zeppo di Wiimote e un divano abbastanza capiente per tutta la combriccola.
Ma sappiate che il Wii, in realtà, è la console domestica più pericolosa di tutti i tempi.
La sua capacità di fornire un intrattenimento videoludico all'ultimo grido è proporzionale al numero di infortuni fisici strettamente connessi al suo atipico sistema di controllo.

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giovedì 18 settembre 2008

Locoroco

LocoRoco è assieme elogio e sfida al level design di gran classe. Giocarlo a mo' di snack da passeggio, seppur possibile e sempre piacevole, vuol dire rinunciare deliberatamente alla necessaria esplorazione di sfiziose e paradossali architetture. Se una frettolosa rotolata verso il "traguardo" può consumarsi in una manciata di estasianti minuti, il reperimento di ogni recondito bonus rappresenta invece la vera difficoltà celata nel gioco di SCEI. Peccare di curiosità, osare verso nuovi sentieri non ancora battuti e setacciare ogni angolo (visibile e non) dello schermo incantato segnano la differenza tra il casual gamer di LocoRoco e il tenace esploratore del morbidoso mondo bidimensionale.

E in LocoRoco, a dirla tutta, l'intraprendenza esplorativa del giocatore premia l'intrattenimento con la necessità di ardite manovre, ben più gratificanti rispetto alla blanda interazione relativa al primo e timido approccio. Ne consegue, inevitabilmente, che l'elemento replay e la sindrome del miglioramento prestazionale agiscono in stretta simbiosi, costringendo gli incalliti collezionisti di record a calibrate strategie di movimento.

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Echochrome

Dalla nostra anteprima di marzo a oggi non è cambiato nulla: il tasso di sfida di echochrome è proporzionale al volume della sua colonna sonora. Detestare quel ciclico tappeto sonoro fatto di archi "da camera" e voci celestiali, tipico dei salotti aristocratici dell''800 o di una biennale, è questione di dieci minuti, un quarto d'ora al massimo. A quel punto non esistono mezze misure: o si impara a conviverci o, allora, è meglio pensare a echochrome come a un gioco muto. Ma, una volta ammutolito il comparto sonoro, integrare il titolo di Sony con iPod, cuffiette e playlist personale vuol dire vederci chiaro.

PER GENTE DI UN CERTO LIVELLO

Il numero dei "tracciati" disponibili sfonda il muro dei trecento, con tanto di modalità Tela, cioè un editor di livelli per stuzzicare l'ingegno. Si tratta di un gioco nel gioco, dato che plasmare strutture tridimensionali che abbiano un senso (il)logico, secondo le regole di echochrome, si rivelerà un compito assai arduo. Incappare nei paradossi geometrici e dar vita a labirinti del tutto impraticabili ai fini ludici, infatti, è il pericolo più grande da correre.
Le "leggi di prospettiva visiva" che governano il mondo di echochrome, invece, sono ancora cinque e, per gestire al meglio il gameplay, è bene studiarle, comprenderle e impararle a memoria.
La prima è la legge del passaggio in prospettiva e dice che quando due diversi percorsi sembrano toccarsi, si toccano veramente. La seconda è quella dell'atterraggio in prospettiva: se un percorso sembra essere sopra un altro, lo è veramente. Poi la terza, quella della presenza (quando non si vede una fessura tra due percorsi e i due passaggi sembrano collegati, lo sono veramente). La quarta, la legge dell'assenza, asserisce che quando un buco non si vede, vuol dire che non esiste. La quinta, infine, si chiama legge del salto in prospettiva e spiega il perché in seguito a un salto si atterra su quel che c'è sotto.

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